giovedì 12 settembre 2013

SPARARE SULLA FALCE&MARTELLO ROSSA


(Gianluca Frattini) Ok, d’accordo, avete ragione: la Sinistra italiana è ridicola e composta per lo più da cialtroni e inetti. Osservazioni difficilmente contestabili. Però avete anche un po’ rotto le palle.
Attaccare la sinistra è diventato uno sport, ben poco estremo da praticare. E’ uno sparare sulla croce rossa, un’attività senza rischio. Ricorda un po’il periodo scolastico, quando certi compagni, per paura di essere identificati come sfigati e per far bella figura con gli altri, bersagliavano di scherzi e insulti l’infelice della classe, il vero sfigato. Solo che nel nostro caso lo sfigato, la sinistra, è anche handicappato. E’ una sorta di bullismo, possiamo dire.
Prendiamo per contrapposizione la Destra: non c’è nulla di più semplice che rappresentare la destra. Anche perché di destre ne abbiamo solo due.
C’è quella identitaria, o meglio “della paura”, la quale trova la sua ragione di esistere nella contrapposizione con il diverso, il quale pone in crisi l’equilibrio che una società si è costruita nel corso dei secoli: si teme lo straniero, l’omosessuale, l’individuo di altra confessione religiosa, la scoperta scientifica, persino l’istituzione internazionale che ficca il naso negli affari della comunità in cui viviamo. Siccome l’uomo è per natura e nella media fortemente avverso al rischio, dato che ogni società è per forza in continua evoluzione, e che quindi ogni periodo storico vive le proprie crisi, questa forma di destra troverà sempre i propri sostenitori, in qualsiasi periodo storico. In fondo al vostro cuore anche voi sentite di appartenere almeno un po’ a questa destra, anche se faticate ad ammetterlo.
Poi c’è la “destra liberale”, che se vogliamo tralasciare decenni di studi filosofici, economici e politici, possiamo sintetizzare con : è tutta colpa dello Stato. La destra liberale mira a conquistare il potere politico (in alcuni casi anche in forme “temporaneamente dispotiche” o comunque non pienamente democratiche) al fine di ridurre il più possibile l’influenza del potere politico stesso da ogni settore della società. Siccome lo Stato è, nei suoi minimi termini, nient’altro che la forma massima di limitazione della libertà totale che ha un individuo in natura, non esiste classe sociale che non abbia almeno un qualche grado di avversione verso lo stato (specie se ti toglie metà reddito con le imposte)
Nella storia le destre si sono alternate tra queste due forme, entrambe però risultando sempre e comunque fortemente attraenti  – in modo quasi istintuale – indipendentemente dal contesto economico e politico, oggi come ieri.

La Sinistra è invece in continua e perenne crisi identitaria. I modelli politici di riferimento sono crollati da più di 30’anni sotto il loro stesso peso; il mondo si è informatizzato e, susseguentemente, finanzia rizzato ad una velocità impressionante; paradossalmente, mentre gli ambiti di influenza, e soprattutto di regolamentazione, degli stati si riducevano, il peso dello stesso sul PIL, in termini di spesa pubblica, debito e pressione fiscale, andavano ad aumentare, e questo soprattutto in ragione di processi di carattere demografico ( non è un mondo per giovani).
In questo contesto, rappresentare la sinistra è impresa improba per chiunque.
 Se domani dichiari che “l’aliquota marginale per i redditi più elevati dovrà aumentare di 2 punti percentuali”, nemmeno avrai finito di pronunciare “marginale” che una buona parte dei tuoi imprenditori sarà scappata nella più liberale Repubblica Democratica del Turkmenistan, e un flusso di ricchezza finanziaria sarà volato verso Dublino, la Svizzera e le Isole Marshall. Con quale credibilità, poi, si può affermare che “è il momento per un nuovo e maggiore ruolo dello stato nell’economia”, se la spesa pubblica ha superato la metà del PIL e metà del reddito dei cittadini finisce in tasse? Parlar d’immigrazione e diritti di cittadinanza nell'epoca del terrorismo globale e  della “contro-crociata Islamica” è sfida impossibile. Infine, anche affrontare le questioni dei diritti civili, in un periodo di grave crisi economica, sembra un po’ come voler distrarre l’attenzione da temi che toccano più da vicino il cittadino contribuente: ci sono sempre “questioni più urgenti da affrontare”.

“Ma cosa dici? Qui stiamo parlando della sinistra italiana! Del PD, d SEL, di cialtroni come mai si sono visti in Occidente, incapaci anche solo di vincere un’elezione e rimanere al governo per fare due riforme!”.
Alt.
Ma siamo proprio sicuri che la sinistra fuori dai nostri confini se la cavi tanto meglio?
Vogliamo ricordare la Spagna, di come Zapatero è riuscito a vincere le elezioni nel 2003, sostanzialmente grazie agli scivoloni fatti da Aznar dopo la stage di Atocha? Ora che il PP di Rajoy è al potere, nonostante le contestazioni al suo operato, gli spagnoli vedono comunque più appetibili i tanti partitini separatisti che non la sinistra socialista.
Poi c’è la SPD di Gerhard Schroder, quello delle riforme di sinistra che piacciono alla destra, la cosa più vicina la labour di Blair. E’ stato gradito a tal punto dagli elettori tedeschi da finire sconfitto nella successiva tornata elettorale e, se va tutto come Frau Merkel spera, falliranno anche questa volta nel tentativo di guidare il governo tedesco.
Passiamo poi al mio paese preferito, la Francia. Mentre il paese veniva guidato dalla destra di Chirac e poi di Sarkozy per quasi 20 anni, la sinistra del Partito socialista si dilaniava all'interno (ricordiamo i recenti scontri per la leadership tra Aubry, Royal, Hamon e l’attuale presidente della Repubblica Hollande, tali da far  impallidire quelli tra renziani, bersaniani, dalemiani e ciwatiani del nostro PD), e il  Front de Gauche continuava a ricercare con il lanternino la propria identità. Solo l’onda montante della crisi economica e una leadership caratterizzata da incapacità comunicativa e una strafottenza insostenibile da parte del piccolo napoleone ungherese sono riusciti a riportare sul trono di Francia i socialisti nel 2012. Ma l’uomo che avrebbe dovuto, non solo ridare equilibrio e forza alla Francia bastonando e fustigando i ricchi del paese, ma persino rivoluzionare l’Europa, François Hollande, ha  fallito miseramente già dopo i primi due anni,  lasciandoci immaginare che l’avventura socialista all’Eliseo non durerà molto.
Possiamo poi continuare il viaggio per tutta lì Europa e oltre ma penso ci siamo capiti.

Io non ho nessun interesse a difendere le sinistre del mondo, o ancor più l’oggettivamente pessimo operato di quella italiana, e credo che passerà ancora lungo tempo prima che la tornerò a votare.  Forse, però, sarebbe  opportuno fermarsi a riflettere prima di sparare con il fucile a piombini su di essa, o di fare gli “allenatori da casa”, televotando dal divano o dalla tastiera quali dovranno essere le nuove forme che la sinistra dovrà assumere per vincere alle successive elezioni – si passa da chi consiglia di trasformarla nel Partito Repubblicano USA a quelli a cui piacerebbe si tornasse ad intonare l’Internazionale socialista ai congressi PD, o un po’ più di audacia verso proposte progressiste nordcoreane – .
Ignorare il contesto mondiale nel quale viviamo, e indossare i paraocchi del provincialismo, non solo non ci permette di distinguere quali sono i problemi caratteristici della nostra sinistra e quali quelli della sinistra in genere ma, come al solito, finisce per portarci a ipotizzare soluzioni e modelli, spesso anacronistici, spesso dannosi, quasi sempre inadatti.


mercoledì 21 agosto 2013

TRE METRI SOPRA I PROPRI MEZZI



(Gianluca Frattini)
Il modello economico tedesco è fonte di continui elogi da parte di politici, autorità europee e commentatori economici, i quali vorrebbero che fosse adottato da tutta l’Europa dei PIIGS, attraverso le famose riforme strutturali. E’, infatti, proprio grazie al modello di sviluppo che la Germania ha intrapreso dopo le riforme attuate a cominciare dal 2002 che il paese ha potuto dar vita al suo “miracolo economico”. In realtà numericamente nulla di effettivamente impressionante, se si tiene conto che il tasso di crescita medio tra il 2000 e il 2010 si è mantenuto sempre sotto la media UE. Però è innegabile che la Germania, grazie alle sue riforme, è riuscita a tirarsi fuori  dalla decennale stagnazione di cui soffriva, ha potuto facilitare il processo d integrazione della parte est del paese incominciata nel decennio precedente e, soprattutto, è riuscita a mantenere tassi di crescita positivi per quasi tutto il periodo successivo alla crisi del 2008, mostrando una capacità di resistenza notevole.
Contemporaneamente, dagli stessi che osannano tale modello, arrivano i rimproveri più forti nei confronti dei paesi mediterranei, i quali sono ritenuti colpevoli di aver intrapreso un percorso di crescita  non sostenibile dove, a elevati consumi non è corrisposta un’altrettanto elevata produttività; per utilizzare  un’espressione alquanto abusata: “hanno vissuto sopra i propri mezzi”.

Qui, però, dovrebbe essere evidente a tutti la presenza di un errore logico di notevoli dimensioni.
La Germania, infatti, da quando è entrata nell’euro, e soprattutto a seguito delle riforme Hartz IV, ha visto costantemente calare la percentuale dei Consumi nazionali e quella degli Investimenti privati domestici rispetto al prodotto totale. Da dove è arrivata allora la crescita? Come potete ben immaginare il colpevole è il commercio internazionale: i tedeschi hanno accresciuto considerevolmente le proprie esportazioni verso il resto del mondo, e in particolare verso i paesi dell’Eurozona, grazie ai quali, tra il 2006 e il 2012, sono riusciti ad accumulare un surplus commerciale pari al 6% del PIL (reinvestito poi nei paesi periferici).
Ma, allora, se i paesi mediterranei non avessero “vissuto sopra i propri mezzi”, importando e consumando più di quanto producevano,  la Germania a chi avrebbe venduto il suo eccesso di produzione? Tutto alla Cina? Pare impossibile (si consideri poi che già adesso la Germania mostra una bilancia commerciale con la Cina  negativa, ossia sono importatori netti da quest’ultima).
La verità è che, senza quell’eccesso di consumo nei PIIGS, non solo la crescita europea del decennio passato sarebbe stata anche più asfittica, ma la Germania non sarebbe mai uscita dalla profonda crisi che la attanagliava da anni, avrebbe avuto ancora più difficoltà con il processo d’integrazione della parte est e, soprattutto, non sarebbe certo diventata un modello economico da importare.
Pertanto, poiché a ogni debito corrisponde un credito e ad ogni deficit un surplus, come è possibile criticare un sistema economico e contemporaneamente elogiarne uno ad esso collegato e dipendente?

Questo discorso ha anche un corollario. I tedeschi sono divenuti sempre più un popolo di risparmiatori, ma questo eccesso di risparmio privato non si è tramutato in un incremento degli investimenti domestici: come sopra accennato, sono diminuiti sia quelli privati che quelli pubblici rispetto al prodotto totale. Secondo Hans Sinn (2011) ben 2/3 dei risparmi nazionali sono finiti all’estero e, come potete immaginare, si sono diretti come investimenti verso i paesi del Mediterraneo – Portogallo, Spagna, Grecia - . Molti di questi flussi finanziari sono serviti per alimentare il debito pubblico di alcuni di questi paesi (Grecia), la bolla immobiliare in altri (Spagna) e, più in generale, quell’”orgia” di spesa che ha permesso loro di vivere sopra i propri mezzi.
Il fatto è che spesso, quando si parla della necessità di portare avanti le riforme strutturali nei PIIGS, si sostiene che ciò aiuterebbe a creare quelle condizioni necessarie ad aumentare gli investimenti domestici e soprattutto per attirare quelli esteri, per divenire così economie più simili a quelle del blocco tedesco. Si tratterebbe di trasformare il mercato del lavoro, di riformare la giustizia per renderla più rapida e il diritto più certo,di  cambiare il sistema fiscale, ridurre i vincoli burocratici, migliorare le infrastrutture, ridurre corruzione ed evasione, eccetera.
Certo, indispensabile, ma allora sorge spontanea una questione: gli investitori privati in Germania ( ma anche in Francia, Olanda e Finlandia), hanno tutti ritenuto il proprio paese meno attraente a causa della giustizia più lenta, il diritto meno certo, il mercato del lavoro più rigido, la burocrazia più farraginosa e, in generale, un clima economico-istituzionale meno favorevole? Strano.
 Sarà che per gli investitori questi elementi sono forse meno rilevanti di quanto si voglia pensare, e che sono ben altre le logiche che li spingono a d investire, molto più legate ai ritorni di breve e brevissimo periodo? Non corriamo il rischio, allora, che queste riforme, almeno nello short-run, abbiano un impatto meno positivo di quanto atteso e sperato?
Ok, spero di essere stato chiaro nell’enucleare il ragionamento.
A questo punto è però opportuno fare un chiarimento.
Tutto questo discorso non mira assolutamente a bollare la Germania e il suo modello come “cattivi” e, viceversa, a giustificare le scelte economiche dei paesi oggi in crisi. Tanto meno si vuole negare la necessità per i paesi mediterranei (a cominciare dal nostro, attanagliato da problemi strutturali dal lato offerta di lunghissimo periodo) di portare avanti profonde riforme alle proprie economie e istituzioni. La necessità nasce, non tanto dalle richieste dell’Europa, della Bce o della Troika, ma dalla necessità di far fronte, oggi più che mai, alle sfide poste da un mercato sempre più finanziarizzato e globalizzato e da quelle date dall’evoluzione demografica dell’Occidente, con popolazioni che invecchiano e riducono il proprio tasso di natalità.
 Lo scopo di questo post è invece duplice.
Innanzitutto far comprendere che in un mondo sempre più interconnesso, le soluzioni “a un solo paese” sono, oltre che impossibili,controproducenti, e che le scelte (libere e democratiche) di un paese si ripercuotono necessariamente, e non sempre in modi facilmente prevedibili, sugli altri. E questo vale ancor di più per un’Unione Valutaria, la quale, se vuole dare un senso alla propria esistenza e, soprattutto, se vuole continuare a sopravvivere, deve incominciare a pensare come se fosse davvero un’unica identità federale, attuando politiche nazionali che siano compatibili anche  a livello comunitario, in una logica cooperativa.
in secondo luogo, sarebbe opportuno che l’approccio ai problemi economici perdesse un po’ la sua vena “moralistica”, e abbandonasse i concetti di “compiti a casa”, “vivere sopra i propri mezzi”, “paesi virtuosi e paesi spendaccioni”, e adoperasse più quelli di azione-reazione e causa-effetto. Ne gioveremmo tutti.



venerdì 12 luglio 2013

E' UN AEREO! NO, E' UN UCCELLO! NO E' UN'ASTRONAVE



[attenzione: contiene spoiler]


A Christopher Nolan piaceva Indipendence Day.


"Nolan devi fare Superman"

" Ma a me piace Indipendence Day. Posso fare Indipendence Day?!"

"No, devi farci Superman."

"Ma posso metterci almeno la scena di un raggio mortale che distrugge una città tipo New York?!"

"Ok"

"E posso infilarci la scena di un vecchio virus informatico che entra in un sofisticatissimo sistema operativo alieno e lo manda in crash?!"

"va bene"

"E un'astronave che entra nella nave madre e la fa esplodere?!"

"D'accordo"


"E gli alieni che s'impadroniscono dei sistemi satellitari terresti per usare i nostri sistemi di comunicazione?!"

"Si!"
" E Will Smith può fare Superman?!"

"... ... ... Qualcuno ha il cellulare di Sam Raimi?!"


Gianluca Frattini

lunedì 24 giugno 2013

Pabl-OGM è morto! Pabl-OGM è vivo!



Non sono un biotecnologo, né un biologo, né tanto meno un professionista di qualsivoglia settore scientifico. Ultimamente, però, mi sono trovato a leggere un po’ di materiale divulgativo in merito all'alimentazione, l’agricoltura e in particolare alle coltivazioni GM (geneticamente modificate). Due degli ultimi libri letti sono stati “Gli OGM sono davvero pericolosi?” e “Le bugie nel carrello”, entrambi a favore dell’uso di queste tecnologie. Ho però anche letto un recente articolo di Mazzetta, uscito sia sul suo blog che su Giornalettismo, che va in senso diametralmente opposto a quanto precedentemente da me letto, e addirittura dichiara perentoriamente” il fallimento dell’agricoltura gm”. Tale certezza è basata su di un lavoro condotto dal professor Jack Heinemann, dell'Università di Canterbury, in Nuova Zelanda, e che mette a confronto cinquant'anni di attività agricola in USA e in UE.
 Da quell'articolo sono nate focose (e un po’ sgradevoli) discussioni sui socialnetwork e, a margine, anche un breve dibattito (ma molto pacato) tra il sottoscritto e il Mazzetta.
Avendo già premesso di non essere un addetto ai lavori, voglio solo soffermarmi su alcuni punti meno tecnici che il blogger ha sollevato e che mi trovano assolutamente in disaccordo.
Innanzitutto l’argomento: “Non siamo in un libero mercato, pertanto il fatto che il numero degli agricoltori che ricorrono alle sementi GM sia in costante aumento non ha alcun valore, perché le potenti lobby pro-ogm fanno pressione affinché media e opinion makers ci bombardino costantemente con campagne a favore degli stessi”.
Sicuramente non stiamo parlando dell’Italia, dove l’industria del “biologico”, o persino quella del “KM 0” hanno potenti alleati. Ma riferendoci anche a realtà altre dal nostro paese, questo discorso mi ricorda tanto quelli per cui “Berlusconi vince per che ha le TV”, e la loro estrema semplificazione e banalizzazione. Qui poi il discorso si fa ancora più stiracchiato: mentre un elettore, teoricamente (e praticamente), lo puoi fottere anche all'infinito, vista la sua memoria effimera e il “paradosso dell’ignoranza”, con un agricoltore è ben più arduo. Se non al primo, al secondo raccolto andato sotto le aspettative non lo freghi più, e di tutte le tue strategie di marketing ci puoi fare un bel falò.
Poi diciamocelo, una politica agricola nazionale che prevede il divieto totale di produzione di OGM, ma al contempo ne permette l’importazione e la vendita, oltre che irrazionale è, simmetricamente e e a maggior ragione,  lontana dal concetto di “mercato libero”.
In secondo luogo c’è il discorso: “Molti scienziati e politici ci hanno abbindolati con la falsa promessa che gli OGM risolveranno la povertà globale, attraverso i migliori rendimenti delle colture gm”.
Allora, intanto, se l’impiego di ogm riuscisse a diminuire i costi per ettaro coltivato, a parità di produzione, questo si trasformerebbe in maggiori redditi spendibili dagli stessi agricoltori. E ricordiamo che la povertà, ancora oggi, colpisce in buona parte le popolazioni che vivono in aree rurali.
Ma, con la polemica affermazione sintetizzata sopra cosa vorremmo dimostrare? Che esiste una parte della comunità scientifica che esagera e sovrastima le proprie e le altrui scoperte? Certamente. Ma ciò non avviene solo nel settore delle biotecnologie. La storia della scienza e della tecnica è piena di dichiarazioni roboanti di ritrovati, alcuni anche solo in fase sperimentale, che vengono spacciati  (magari anche in buona fede), come soluzione di alcuni grandi mali: dal settore energetico, con i pannelli solari e l’idrogeno o il nucleare, sino ad alcune applicazioni mediche.
Vogliamo dire che alcuni tra questi scienziati hanno “sexed up” volontariamente alcuni prodotti gm per interessi economici personali, alle volte persino celati? Può darsi. Certo, servirebbe qualcosa di maggiormente probante delle illazioni o del “lo sanno tutti”, ma è una cosa che, purtroppo,  avviene spesso, ed è certamente da censurare. Però questo è un problema di etica professionale di alcuni ricercatori, e una questione di controlli e auto-controlli che vanno rafforzati e migliorati, non certo un problema relativo all'inserimento di un gene esogeno in un vegetale. Crocifiggiamo chi mente per interesse e controlliamo ogni affermazione, caso per caso, non stigmatizziamo un settore ed una pratica tecnica.
Poi, superate le opinioni, si passa ai cosiddetti fatti, al paper in questione.  Qui c’è il diffuso malcostume, -che da lettore di argomenti economici riscontro in quel settore con ancora maggior frequenza- di considerare ogni paper una specie di pistola fumante che possa provare la colpevolezza in ogni processo, anche quelli scientifici; una specie di vangelo, con una verità rivelata e incontrovertibile, da brandire come un’arma definitiva contro i propri oppositori. Ma non è certo un paper, magari nemmeno troppo ben fatto, a poter dimostrare una volta per tutte una verità in un ambito, quello scientifico, dove ogni affermazione necessita di decine di prove e controprove, fintanto che una nuova ricerca non metta nuovamente in dubbio quanto fino a poco prima si considerava dimostrato. A quel punto occorrono ulteriori nuove analisi, e così via.
Ma fermiamoci a questo lavoro.
Io, di mio, ho trovato in questo contro-articolo di Federico Baglioni su Prometeus una risposta più convincente, laddove si fanno presente i limiti analitici del lavoro neozelandese (specie nei PS).  Forse non è una risposta sufficiente a  smontare la ricerca, ma sono già buoni punti per insinuare qualche dubbio sulla sua validatà.
Ripetendo per l’ennesima volta che non sono un esperto della materia, lascio a voi la possibilità di giudicare e farvi un’idea, ed invito tutti i tecnici del campo che lo desiderano a postarmi e farmi avere qualsiasi informazione ben documentata che possa confutare, o piuttosto corroborare, quanto il paper va sostenendo.
 L’unica fame di cui non si può e non si deve essere mai sazi è quella per la verità.
Gianluca Frattini



giovedì 30 maggio 2013

BANALITà LIQUIDE



Secondo l’anziana pop star della sociologia, Zygmunt Bauman, la razionalità, non solo non è un valido argine contro il Male, ma ne è forse la prima causa, in quanto un individuo che desidera raggiungere con efficienza un obbiettivo se ne fregherà dell’empatia. Inoltre, la razionalità, in quanto madre della tecnologia, amplifica all'infinito le nostre potenzialità di compiere del male fino a sfiorare il “globicidio”, e allo stesso tempo ci frustra nella nostra “indole creativa” e banalizza ogni nostra azione (la “banalità del male” della Arendt in chiave moderna),  rendendo la violenza quasi inevitabile.

Ora, qualcuno di buona volontà dovrebbe dire all'intellettuale liquido che “la TeNnica” ha mostrato la sua potenzialità distruttiva sin dal paleolitico, con la prima selce lavorata per fare da punta a una lancia.
Però, la stessa tecnica, non solo ci ha condotti ad essere 7 miliardi di abitanti con un grado generalizzato di benessere inimmaginabile sino a 70’anni fa, ma è la vera ed unica ragione della diffusione dei principi liberali e della democrazia in (quasi) tutto il globo; globo che lui vorrebbe essere destinato all'estinzione a causa del predominio dell’ alienante (in senso marxiano) tecnica, a scapito della creatività e dell’empatia.

Forse Bauman dovrebbe chiedersi se esistano studi precedenti alla rivoluzione industriale nei quali si valuti il livello di benessere delle varie società umane, che possano così attestare un passato interesse per la questione. Ne troverà molti pochi, e questa è già una buona risposta ai suoi interrogativi.
Forse noi, invece, dovremmo chiederci se valga ancora il nostro tempo leggere un dotto ma anziano signore che lamenta le sue preoccupazioni da dotto ma anziano signore, come fossimo tutti in una gigantesca fila della posta globale, e che forse ci ha già detto tutto quello che ci doveva comunicare.

Gianluca Frattini

sabato 25 maggio 2013

QUANDO L'ABORTO COLPISCE CHI NASCE: aborto tout court Vs. aborto selettivo




In una discussione su facebook relativa a questo articolo, nel quale si faceva presente che per colpa della crescente diffusione dell'obiezione di coscienza tra i medici italiani, il diritto sancito per legge delle donne di abortire sta di fatto venendo sempre più limitato, anche nei casi di necessità terapeutica, è uscito il tema degli "aborti selettivi" che avvengono nei paesi in via di sviluppo (in particolare Cina ed India), dove spesso, a "non essere selezionate" sono le donne,  sovente, in presenza di politiche governative di controllo delle nascite.
A tal proposito mi è stato presentato quest'altro articolo, che attraverso un ragionamento pienamente logico, sembra in qualche modo avvallare la pratica dell'aborto selettivo, e lo fa per ogni circostanza:
 "dal punto di vista razionale non sembra esistere alcuna ragione per considerare la riduzione embrionaria diversamente da una interruzione volontaria di gravidanza, e se si è favore della possibilità della donna di scegliere di abortire, allora si dovrebbe essere anche a favore dell’aborto selettivo.".


Il fatto è che, "con l'aborto selettivo" nei contesti sopra esposti, non si sta parlando di semplice scelta individuale, ma di una pratica basata su di un pregiudizio arcaico che sembra essersi conservato in età moderna, rafforzato da una avversa situazione socio-economica e da programmi governativi di controllo demografico.
Sottolineando innanzitutto che tutte le politiche finalizzate al controllo demografico, sono distorsive, aberranti e molto spesso anche inefficaci, c'è da dire che l'aborto selettivo basato su tali presupposti, non è un danno perpetrato al "non nato (o nata)", di cui tratta l'articolo che hai linkato, ma è un problema per le conseguenze sociali su chi nasce. prima di tutto verso l'oggetto della discriminazione, ossia le donne, che vedono rafforzate le pratiche discriminatorie e la considerazione di "fardello sociale", se non altro per un fatto numerico "divengono minoranza". Poi è un problema indiretto anche per gli uomini: aumentando il disequilibrio tra nati maschi e nati femmine (in cina nascono 110 uomini ogni 100 donne) puoi immaginare anche te quali possano essere le conseguenze sull'armonia di una comunità.

Quindi, il problema della "donna fardello" dovrebbe essere affrontato, non certo impedendo gli aborti selettivi (come?) cercando innanzitutto di agire sui fattori economici e istituzionali che perpetrano questo fenomeno discriminatorio: a cominciare dall'istruzione (come è avvenuto in Kerala) e poi, magari, adottando qualche forma, la meno distorsiva possibile, di affermative action.

Aggiungo, che l'approccio bioetico dell'articolo, non mi trova molto concorde: parte dall'idea del "determinismo tecnologico" e di una sorta di "neutralità morale" per la razionalità. Sostiene che "siccome la tecnologia ci permette potenzialmente di far tutto, allora è giusto che si faccia tutto, tanto in un modo o nell'altro le cose avvengono". inoltre se una cosa è razionale è inutile farsi tante pippe mentali.Attenzione, siamo creature razionali, ma anche morali, inoltre se la tecnica ci permette di fare ogni cosa, è anche vero che ci permette di controllare pian piano anche gli stessi fenomeni a cui diamo vita (sebbene il controllo segua solo).

Gianluca Frattini

lunedì 20 maggio 2013

TWEET TRIBU'



Nell'epoca del "post-ideologico" i socialnetwork e i blog amplificano e accelerano la tendenza della società a "tribalizzarsi".


La dinamica è simile, e indipendente dal tipo di tribù: una piattaforma di discussione propone un argomento dalla forte carica ideologica (non importa quale), che attrae gente di vario tipo (il Verbo/la Missione). 
Pian piano un'opera di forte selezione allontana gli individui più dissimili e meno "fedeli" o votati alla "missione";
si identifica un leader carismatico (il Capo Tribù) sul quale viene investito un crescente capitale di fiducia, tanto che alla fine si tende a considerare qualsiasi sua affermazione un argomento ex cathedra (la Dottrina);
si iniziano a identificare dei veri e propri nemici esterni, che attentano all'integrità del gruppo, nemici persino da abbattere;
 a questo punto  comincia a svilupparsi e poi diffondersi un linguaggio comune, un codice, quasi rituale,  -
generalmente adottando dei neologismi coniati dal Leader- fatto di slogan, sberleffi, etichette, formule condivise da ripetere nei momenti opportuni, quando si vuole "attaccare" o si è "sotto attacco" (il Mantra). 

Arriva il momento vero e proprio in cui la comunità si tramuta in tribù: l'argomento attorno al quale il gruppo originariamente si era formato perde di importanza, diventa marginale (se non nelle formule di rito ripetute come mantra), e il tutto diviene una QUESTIONE IDENTITARIA e di RELAZIONI FAMIGLIARI:
attaccare un argomento della tribù, non vuol dire solo insinuare un dubbio sull'idea in sè, ma rappresenta un colpo sferrato contro 'identità della collettività e i "parenti".
Le offese vanno vendicate.

Tutto ciò potrebbe non essere un problema, visto che meccanismi del genere avvengono nella vita reale quotidianamente, se non fosse che questi gruppi nel contesto reale trovano dei meccanismi che ne attenuano la forza - per esempio le tribù con l'aumentare della dimensione tendono ad indebolirsi- mentre  nella realtà no, tali meccanismi sono deboli o assenti
.
Il vero problema è che il tempo passato sui social cresce esponenzialmente, e l'impatto che questi gruppi "virtuali" hanno cresce di pari passo, travasando nella realtà off-line.

Gianluca Frattini

martedì 12 marzo 2013

Opinioni di un testa di cazzo: NON è una questione MORALE.


Spesso ci si fossilizza sulla questione dei salari dei tedeschi e dei francesi comparati a quelli Italiani, e lo lo si fa in un'ottica "morale" di tipo "buono-cattivo". No, non è questo il punto. I salari tedeschi erano e sono ancora più alti di quelli italiani, e così anche la produttività. E non si vuole certo asserire che i governi tedeschi "cattivi e cinici" hanno sacrificato i poveri salariati tedeschi sull'altare del profitto (Bagnai, per esempio, un po' lo fa, ma secondo me perchè l'argomento ha il suo appeal su certi individui), che in fondo le dinamiche lavorative perverse sono presenti ovunque, persino forse nelle socialdemocratiche Danimarca e Svezia.
Ciò che si dovrebbe cercare di argomentare è che, un paese all'interno di un'unione monetaria, senza valutare gli effetti collaterali su tutta l'Unione, ha adottato una strategia "non cooperativa" di deflazione interna. In cosa è consistita questa deflazione? Nella riduzione del CLUP, il Costo del Lavoro per Unità Prodotta, ossia a fronte di una produttività crescente hanno bloccato la crescita salariale. Anche i Francesi avevano un'alta crescita relativa della produttività, ma hanno lasciato che i salari crescessero più di questa. Cosa ha comportato ciò? Che in Germania la domanda interna si è contratta (verificare dati OCSE) e la produzione si è spostata sulle industrie dell'esportazione, che sono diventate più competitive rispetto ai partner europei (che costituiscono il mercato principale tedesco), una crescita più lenta dell'inflazione, e soprattutto ingenti surplus commerciali. Come sappiamo bene, quando c'è una avanzo della bilancia commerciale, ci deve essere un'uscita corrispondente di capitali dal paese da investire all'estero. E dove sono andati questi investimenti? Esatto: Spagna, Grecia, Irlanda. I Piigs insomma, i quali, grazie "all'illusione europea" avevano goduto di profili di rischio immotivatamente favorevoli. Questi flussi di capitali (che in Spagna hanno alimentato la bolla immobiliare [privata] e in Grecia la spesa clientelare) hanno incrementato ancora di più il tasso inflattivo, e quindi i differenziali, oltre che il debito pubblico. Da qui i famosi squilibri di cui parlavano Alesina e Friedman negli anni '90 e Martin Wolf da tre anni a questa parte.
Ora, so bene che partirà automatico: "ALLORA POTEVAMO FARE TUTTI COME LA GERMANIA!". Io spero che dopo due minuti di riflessione capiate che questa cosa è impossibile per tre piccole, enormi, ragioni.
Innanzitutto quando sono entrati nell'Euro i PIIGS (alcuni più degli altri) partivano da salari, in termini assoluti già bassi. Pensate che la Grecia e il Portogallo avrebbero potuto adottare una strategia deflazionista partendo da quelli livelli salariali (andatevi a vedere in che condizioni versavano quei paesi alla fine dei '90), livelli di produttività così miserrimi e una base di prodotti da esportazione ridicola? per la Germania la cosa è stata più facile, partendo già con alti livelli salariali e di produttività.
La Germania, per fare le sue riforme Haartz (come già molti hanno fatto notare) ha sforato per prima i Parametri di Maastricht. Provate ora a dire alla Merkel e a Oli Rehn che non volete rispettare il Fiscal Compact.
Infine vi è una motivazione di ordine logico: in un'unione monetaria nella quale la maggior parte dei commerci si ha internamente tra paesi aderenti, come potrebbe funzionare la strategia tedesca? La Gremania, come si diceva, ha sostanzialmente lasciato contrarre la DOMANDA INTERNA a favore di quella estera, ossia dell'Export. Se tutti adottassimo questa strategia, contraendo le rispettive domande interne e puntando sull'esportazione, A CHI ESPORTEREMMO POI? Tutti a dirottare merci in Cina? Mi pare logico.
Insomma ragazzi, queste sono ragioni di carattere meramente economico, non etico o morale. E' possibile che il confronto debba essere tra chi sostiene che la Germania è stata "cattiva, cinica e barbara" ed è tutta colpa sua, e chi pensa che no "la colpa è dell'Italia che ha la kastaKorruzione e i Fiorito e i Berlusconi" e che se "spazziamo via la spesa pubblica brutta e cattiva ricominciamo a correre come la Svezia"? La questione è questa, e non è morale: la Germania non ha adottato una strategia "cattiva", bensì non COOPERATIVA (a nessuno in Europa per più di 10 anni ha fregato un cazzo di cooperare ma ha cercato di massimizzare la propria utilità) e NON SOSTENIBILE SUL LUNGO PERIODO (se massacri tutti i tuoi mercati di esportazione poi che fai?), come in fondo NON erano sostenibili i modelli spagnolo e greco; l'Italia ha certamente un problema di "kastakorruzione" di spesa pubblica da RAZIONALIZZARE e una pressione fiscale troppo alta, ma anche risolvesse in parte questi problemi, in un'unione monetaria così disegnata non si salverebbe, come pian piano si sta vedendo per la certo non dissennata Slovenia e persino la scricchiolante Olanda.
Stop

Gianluca Frattini

giovedì 3 gennaio 2013

OPINIONI DI UN TESTA DI CAZZO: MA COSA PENSANO GLI ANTI-EUROPEISTI?*



Questa è una sintesi dell'interpretazione che gli "anti-europeisti" e sostenitori dell'uscita dall'Euro danno alla Crisi Europea.

In un'area ad alta interazione commerciale come l'Europa, una volta venuti a mancare i meccanismi automatici di riequilibrio dati dai tassi di cambio delle rispettive valute, i Paesi in cui il CLUP era più alto (i PIIGS, o il "Club Med" più l'Irlanda) hanno visto un peggioramento delle proprie ragioni di scambio, il quale ha condotto ai notevoli squilibri delle bilance commerciali all'origine dell'odierna crisi. Questo fenomeno è andato peggiorando quando i Paesi definiti "core", con in testa la Germania, hanno ridotto ulteriormente il proprio CLUP.
Tutta "l'attenzione" da parte dei Mercati nei confronti dei paesi più deboli, e la loro sanzione tramite spread, è dovuta a tale dinamica, che ha portato ad un disavanzo delle partite correnti insostenibile, sopratutto con i tassi di crescita asfittici, e ulteriormente abbattuti dalla crisi del 2008, degli stessi.

In un regime di cambi fissi come il nostro, esistono solo due vie per poter riportare in equilibrio le ragioni di scambio e, quindi, le bilance commerciali:
-Si peggiorano le ragioni dei paesi core, sostanzialmente attraverso l'aumento salariale.
-Si migliorano le ragioni dei PIIGS attraverso la "deflazione salariale".

La strada intrapresa dal 2009 è la seconda.

Il problema di questa strategia è duplice.
Innanzitutto, da una certa prospettiva di teoria economica, la produttività di un paese dipende dalla crescita, la quale dipende dalla domanda, la quale, a sua volta, dipende dal reddito. In tal caso, una strategia improntata sulla riduzione dei redditi condurrebbe, pertanto, ad un calo della produttività, quindi ad un aumento del CLUP. Questo approccio porterebbe quindi ad un'aumento, non a una riduzione, degli squilibri.

In secondo luogo, dato che ai paesi core non farebbe comunque comodo la morte per inedia dei propri partner commerciali, sarebbe inevitabile dare vita ad ingenti trasferimenti fiscali da questi  a quelli periferici. Tali trasferimenti, oltre che politicamente difficilmente accettabili per i contribuenti tedeschi, produrrebbero una "italianizzazione" dell'Europa, con un Sud più povero e  totalmente dipendente dal Nord per la sua sopravvivenza.
A ciò si aggiungerebbero  i problemi derivanti da avere un meccanismo di deflazione in paesi ad alto debito estero che non possono ripagarlo in una "propria" valuta. 


La soluzione di tutto ciò, a questo punto, sarebbe il ripristino delle valute nazionali, lasciate libere di fluttuare per ripristinare gli equilibri commerciali. In poche parole l'uscita dall'Euro.

Gianluca Frattini

* Questo post ha un mero scopo divulgativo ed è destinato a chi ha poca o nessuna conoscenza economica. L'interpretazione della crisi qui riportata, almeno in parte e soprattutto nelle conclusioni, non è quella appartenente all'autore del post.

diciamo no all'invasivo candito nelle nostre vite

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